Nella giornata tipo di ognuno di noi il digitale permea una quota sempre maggiore del nostro tempo, e il lockdown nel quale siamo stati immersi durante l’emergenza COVID-19 ha fatto balzare il consumo di servizi digitali per rimanere connessi agli affetti, al lavoro e per colmare il tempo libero che si è venuto a creare. Oltre ad essere utenti a volte passivi del digitale ne siamo spesso parte attiva producendo, volutamente o inavvertitamente dati e informazioni. Come comunità dovremmo porci il problema dell’utilizzo che di questi dati viene fatto, e soprattutto di non disperderne il loro patrimonio informativo, in mille rivoli. Dobbiamo riciclarli in un processo di valorizzazione circolare in modo da usarli per comprendere meglio i fenomeni sociali, della salute, dei trasporti, dell’educazione, del lavoro e di qualunque altro settore. I dati e la conoscenza che se ne trae possono aiutarci ad affrontare con maggior consapevolezza le sfide che abbiamo davanti e come mai prima d’ora, è importante che la conoscenza che produciamo come comunità sia restituita integralmente indietro e messa a disposizione di tutti. I dati sono oggi beni comuni alla stessa stregua di quanto lo sono l’acqua o l’aria che respiriamo e sarebbe un grave errore usarli solo per il bene di alcuni e non per quello di tutti.
Il progresso tecnologico dell’elettronica e delle telecomunicazioni negli ultimi 30 anni ha la particolarità di riguardare un settore non tradizionalmente verticale ma bensi trasversale, infrastrutturale e i cui benefici possono essere applicati praticamente a qualunque ambito. Questo progresso grazie alla caratteristica pervasiva delle reti, ha connesso sempre più capillarmente ogni individuo, ogni soggetto espandendosi in modo continuo e inesorabile giorno dopo giorno e annettendo su Internet nuovi dispositivi, satelliti, macchine, veicoli, sensori fino agli oggetti e oltre.
Questa nuova dimensione collettiva che si è venuta a formare è forse la vera natura e la prima che abbiamo sperimentato di manifesta globalizzazione. È senza dubbio un fenomeno di “onnizzazione” più che di globalizzazione dove non solo si connettono sistemi di culture ed economie diverse e distanti ma si concretizzano connessioni tra elementi che mai avremmo potuto immaginare così intimamente vicini. Creata una interfaccia di connessione alla rete, qualunque oggetto o intelligenza anche artificiale, può iniziare a far parte del dialogo globale e contribuire a formare la nostra intelligenza e capacità collettiva.
Frequentando la Silicon Valley a cavallo del cambio di millennio osservando la crescita delle prime aziende campus come Cisco, 3Com, Intel sarebbe apparso piuttosto chiaro di come si sia passati in fretta dalla rilevanza delle telecomunicazioni e del networking, prima, verso quello del software e poi a quello delle dot.com che offrivano soluzioni per i contenuti (Netscape, Infoseek, Yahoo, Aol). Maneggiare e gestire l’informazione era un problema aperto allora e la quantità di dati che iniziava a transitare nelle reti, anche se il numero di utenti era ridotto rispetto a quello odierno, lasciava intravedere che la gestione dell’informazione e della complessità era il nuovo astro nascente del firmamento tecnologico. Si stava passando di fatto dall’Internet alla Infosfera [1], dalle reti e dai fornitori di connettività ai media globali e ai servizi online.
In questo scenario è bene riflettere sui modelli che hanno reso possibile e sostenibile la costituzione e la crescita di Internet. La questione di Internet come bene comune è sempre stata oggetto di dibattito così come la neutralità della rete sulle regole che ne governano il suo funzionamento. Se analizziamo come si è passati nel tempo da un modello di gestione condiviso dei beni collettivi alla proprietà privata [2] o a delle regole che ne rendano sostenibile l’uso [3], si evidenzia come per Internet il discorso sia diverso. Non fosse altro che è proprio pagando la propria connessione alla rete che ognuno ha contribuito in quota parte a costruire Internet per come oggi lo conosciamo ed è proprio per questa sua natura distribuita che, nonostante oggi abbia una dimensione notevolmente più grande e una complessità decisamente maggiore, rimane ancorato allo stesso principio da cui è nato, ovvero quello per cui ognuno continua a sostenere i costi di interconnessione con i quali di fatto contribuisce al mantenimento della rete complessiva il cui accesso è appunto universale, possibile praticamente a tutti anche se, in condizioni, velocità e modalità non sempre così paritarie.
Beni comuni digitali (digital commons)
Una breve premessa necessaria perché Internet e il Web di fatto rappresentano nel suo insieme il bene comune digitale per eccellenza. I beni comuni digitali, infatti sono quei luoghi che consentono la produzione collettiva di dati e conoscenza. In genere sono gestiti da una comunità, che se ne prende cura e che rilascia le informazioni, solitamente, con una licenza libera. Informazioni che chiunque può migliorare e riutilizzare con minime condizioni o addirittura senza alcun limite. La questione delle sostenibilità di questi luoghi è fondamentale affinché possano essere considerati dei beni comuni.
Uno dei primi esempi di beni comuni digitali, e quello che si è andato a formare sin dai primi anni ‘80 con il movimento del Software Open Source favorito dall’espandersi di Internet. Il bene comune digitale in questo caso è rappresentato dal codice sorgente del software, ma il vero valore scambiato consiste nella conoscenza e la possibilità di riutilizzarla appunto disponendo di quell’artefatto. La creazione del codice sorgente, del resto è spesso opera di più individui che in modo collaborativo, creano, adattano e ottimizzano il codice in un processo continuo di miglioramento. Il set di licenze che ne regolano l’utilizzo e la presenza di un ambiente o infrastruttura per facilitare la collaborazione e quindi la fruizione del bene comune, è essa stessa parte integrante del bene e ne costituisce un elemento inscindibile dal dato o dalla conoscenza. Questo binomio tecnologico di “informazione riusabile e lo strumento per fruirne” rappresenta il concetto più importante dei beni comuni digitali spesso costituiti appunto da “piattaforma e dati – entrambi aperti e riutilizzabili”.
Ci sono molti esempi di piattaforme e di beni comuni digitali, tra i quali probabilmente il più conosciuto è Wikipedia fondato nel 2001 [4] da Jimmy Wales e Larry Sanger impostato sin dalla prima versione su alcuni concetti chiave come il fatto di essere ad accesso libero e di non avere un controllo centrale, ma essere completamente aperto, ovvero sia i contenuti che le regole per fruirne sono creati e migliorati spontaneamente da chiunque. I contributi che ciascun utente crea, diventano patrimonio condiviso e contribuiscono a formare un sapere, libero e senza barriere.
Un altro esempio anch’esso che si sviluppa in rete nel 2008 con l’alba della gig economy [5] e che trae ispirazione sia da Wikipedia che dal movimento Open Source è quello di Turkopticon (https://turkopticon.ucsd.edu/) una piattaforma sviluppata e utilizzata dai lavoratori di Amazon Mechanical Turk [6] per fornire commenti e dati in grado di misurare i datori di lavoro secondo diversi aspetti di affidabilità, pagamenti ed equità. Una piattaforma tecnologica e dati come bene comune digitale per i diritti dei lavoratori, che fino ad allora spesso finivano per rimanere nell’ombra di situazioni di ingiustizia [7].
Anche da noi è successo qualcosa di analogo recentemente in risposta all’emergenza epidemiologica COVID-19. Sono emerse spontaneamente reti di solidarietà dal basso in diversi comuni italiani e sono state create delle piattaforme di base per far incontrare i negozianti locali (alimentari, farmacie, etc.) con i cittadini e con le reti di volontari che poi effettuavano consegne a domicilio. Alcuni comuni stanno riutilizzando lo stesso meccanismo per creare piattaforme di ordinazioni e consegne gestite da cooperative di rider locali che funzionano anche nel post-COVID e forniscono una valida, equa e sostenibile alternativa ai servizi di consegna gestiti dalle piattaforme globali. Il Comune di Bologna sta per aprire dati analoghi in una nuova piattaforma dove sono rilasciati come beni comuni della città ulteriori open data utili alla ripartenza.
Il motivo per cui queste piattaforme sono rilevanti per una comunità o per un paese come il nostro è che possono essere considerate, per la sua intera popolazione, vitali e necessarie alla stessa stregua di quanto non lo siano i fondamenti come la cura in sanità, l’apprendimento nell’istruzione o la collocazione per il lavoro.
Quali sono le piattaforme di beni comuni digitali che potrebbero essere costituite e aiutare profondamente il nostro paese ?
In un paese come il nostro che rimane da anni tra gli ultimi in termini di progresso sulle competenze ed economia digitale [8] (addirittura ultimo posto nel 2020 come progresso del capitale umano sul digitale) non è più sufficiente concentrarsi nella digitalizzazione della Pubblica Amministrazione e nella creazione delle infrastrutture a banda larga, anche se queste dovranno continuare ad essere sviluppate ed evolversi, servono più che mai beni comuni e piattaforme che promuovano e inneschino una scintilla che finalmente alimenti una solidarietà complessiva e inter-generazionale, che faciliti l’apprendimento in modo semplificato ed intuitivo a tutti gli Italiani e alla miriade di studenti stranieri che già frequentano il nostro paese, oltre che a tutti coloro che hanno scelto di vivere qui.
Quella dell’educazione a distanza, tema emerso prepotentemente proprio durante l’emergenza COVID-19 poteva essere una occasione, nonostante per il momento non sembra sia stata raccolta appieno. L’adozione di strumenti online per effettuare l’insegnamento a distanza ci ha trovato completamente impreparati e fatti salvi rari casi è stato approntato in modo del tutto improvvisato. Le scuole e gli insegnanti hanno adottato soluzioni e strumenti diversi, senza alcuna regia o raccomandazione. Un’occasione appunto mancata, perché la tecnologia è basata su standard aperti ed è disponibile da tempo. Alla portata dei nostri apparati, semplice da realizzare e da rendere disponibile in tutte le nostre scuole dell’obbligo e non solo. Una opportunità persa due volte perché non si è stati in grado neanche di produrre e iniziare a condividere contenuti educativi di qualità o materiale che sarebbe potuto rimanere ed essere riutilizzato anche in seguito. Una piattaforma del genere intesa come bene comune, non fornisce solo solo un’utilità in quanto servizio ma la base per qualcosa di più grande, un sistema nel quale ripensare l’apprendimento non solo per coloro che sono oggi studenti ma per chiunque lo voglia. In un epoca dove ci sono migliaia di scuole e università passate all’open education come il noto MIT Open Courseware dove la quasi totalità dei corsi tenuti in aula è disponibile anche online con accesso praticamente gratuito ci saremmo potuti aspettare un balzo in avanti un po’ più audace dalla macchina dell’educazione italiana.
Lo stesso accade nel settore dei trasporti. I dati sugli orari, sulla bigliettazione, sulla intermodalità e co-mobilità sono il perno centrale dei servizi innovativi di mobilità e dovrebbero essere un bene comune il cui accesso e riutilizzo dovrebbe essere garantito a tutti. Ce lo ricorda il regolamento (UE) 2017/1926 che prevedeva che ogni paese fornisse un punto unico di diffusione online dei dati sui trasporti e che l’Italia purtroppo non ha correttamente recepito e approntato nei tempi previsti tanto che siamo oggetto di una procedura di infrazione comunitaria [9] da risolvere quanto prima. Tutti i servizi di mobilità operanti nel territorio, inclusi i servizi di sharing (auto, scooter, bici, monopattini, etc.) così diffusi nelle grandi città e utilizzati da milioni di utenti producono incessamente dati che sarebbero utilissimi per comprendere, pianificare e periodicamente aggiornare i Piani Urbani di Mobilità Sostenibile in modo ottimale oltre a favorire la creazione di nuovi ed innovativi servizi.
Sarebbe stato molto utile anche per la bella iniziativa denominata “Smarter Italy” [10] che ha come obiettivo quello di accelerare la crescita del paese attraverso l’utilizzo degli appalti innovativi e che dei 50 milioni di disponibilità né ha assegnati ben 20 alle proposte sulla mobilità intelligente (Smart Mobility). Sottovalutare la creazione di piattaforme di condivisione della conoscenza e dei dati, può avere un effetto negativo a cascata e compromettere quanto di buono si sta cercando di fare.
Per evitare uno stato di impasse sulla costituzione di beni comuni digitali occorre diffondere rapidamente una cultura dell’uso etico dei dati e favorire politiche di apertura e condivisione pubblica delle informazioni non solo da parte delle amministrazioni pubbliche ma anche dai soggetti privati, in particolare quando questi operano su concessioni pubbliche o partenariati pubblico-privato ma anche in tutti gli altri casi.
Quello dei dati e della conoscenza come bene comune è un teatro in continua evoluzione le cui regole devono ancora essere scritte. In Europa il tema è centrale e già da anni si stanno definendo i dettagli per un Digital Single Market comune che appare un progetto lungimirante e decisamente orientato a quei principi di apertura, libertà ed equità che sono base comune delle nostre culture. Proprio la scorsa domenica sono stati rilasciati tre importanti rapporti [11] sull’economia digitale europea sui quali è stata aperta una consultazione pubblica [12] per una economia online più giusta che invito tutti a leggere e partecipare entro il prossimo 8 settembre
Su questi ambiti e assieme nell’unione europea mi auspico saremo in grado tutti di recuperare quel sense-of-urgence con il quale durante l’emergenza COVID abbiamo avuto tutti a che fare.
Riferimenti
- Termine coniato da Alvin Toffler nel libro “The third wave” (1980)
- Hardin, Garrett (1968). “The Tragedy of the Commons” (PDF). Science. 162 (3859): 1243–1248. Bibcode:1968Sci…162.1243H. doi:10.1126/science.162.3859.1243. PMID 5699198.
- Ostrom, Elinor (1990). Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action. Cambridge, UK: Cambridge University Press. ISBN 978-0-521-40599-7
- https://en.wikipedia.org/wiki/History_of_Wikipedia
- Gig Economy su Treccani: http://www.treccani.it/vocabolario/gig-economy_%28Neologismi%29/
- Amazon Mechanical Turk: https://www.mturk.com/
- Illy C. Irani and M. Six Silberman. 2013. Turkopticon: interrupting worker invisibility in amazon mechanical turk. In Proceedings of the SIGCHI Conference on Human Factors in Computing Systems (CHI ’13). Association for Computing Machinery, New York, NY, USA, 611–620. DOI:https://doi.org/10.1145/2470654.2470742
- The Digital Economy and Society Index (DESI): https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/desi
- Senato della Repubblica – Procedura di infrazione nr 63 XVIII Legislatura: http://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/docnonleg/40415.htm
- AGID Smarter Italy: https://appaltinnovativi.gov.it/smarter-italy
- Commission expert group publishes progress reports on online platform economy: https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/news/commission-expert-group-publishes-progress-reports-online-platform-economy. New EU rules and guidance for a fairer online economy (press release): https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/news/new-eu-rules-and-guidance-fairer-online-economy
- Progress reports from the EU observatory on the online platform economy – Have your say!: https://ec.europa.eu/eusurvey/runner/63aa6289-df8e-ba07-80e3-d649c491bd60