Joe Biden e il suo “problema europeo”
Joe Biden

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“C’è della magia in ogni nuovo inizio”. Con queste parole la Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha salutato pochi giorni fa al Parlamento Europeo l’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca.

Di Federico Castiglioni, Phd

Nel corso del suo intervento, l’ex ministro della Difesa di Angela Merkel ha chiarito i temi sui quali le istituzioni europee si aspettano un cambio di passo da parte degli Stati Uniti con l’inizio di questa nuova presidenza: emergenza climatica, salute e digitalizzazione sono solo gli esempi più lampanti.

Inevitabile, sullo sfondo, la pietra di paragone dell’amministrazione Trump, la quale aveva congelato il rapporto con l’Unione Europea su questi dossiers.

Ancora più inevitabili i riferimenti all’assalto al Campidoglio avvenuto subito dopo le elezioni americane, una spia di “un vento populista dal quale neanche le democrazie europee sono immuni”.

Fin qui, la retorica, in gran parte prevedibile visti gli ottimi rapporti tra diversi capi di Stato europei e l’allora vicepresidente Biden da una parte, e il mal celato disprezzo verso Trump dall’altra.

Queste frasi di circostanza della Presidente, scontate vista la congiuntura politica anti-populista, non sono riuscite tuttavia a nascondere quanto il rapporto tra gli Stati Uniti e l’Europa nel suo complesso sia in questo momento difficile e pieno di ostacoli.

Alcuni motivi di attrito nelle relazioni transatlantiche sono noti e di lunga data.

Il primo tema è il finanziamento della Nato: dalla fine della guerra fredda gli Stati Uniti chiedono agli europei di spendere di più per il finanziamento della Nato, centrando il 2% di contributo sul rispettivo PIL per finanziare l’alleanza. Tutti i presidenti americani che si sono succeduti negli ultimi trent’anni, repubblicani e democratici, hanno posto l’accento sul tema, con toni sempre più urgenti e perentori.

Ad oggi, il contributo degli Stati europei oscilla tra l’1% e l’1,8%, lasciando agli Stati Uniti l’onere finanziario e materiale maggiore. Anche se gran parte dei governi del continente da tempo promettono di adeguare il loro contributo, realisticamente l’aggiustamento richiederà almeno altri dieci anni per entrare a regime, come dichiarato pochi mesi fa dalla Cancelliera Angela Merkel.

Donald Trump aveva promesso di ritirare gran parte del contingente USA dislocato in Germania in mancanza di segnali concreti da parte degli alleati europei.

Questi segnali non solo non sono arrivati, ma sono stati sostituiti da provocazioni di segno opposto da parte europea come quelle sulla “morte cerebrale” della Nato del Presidente Macron.

Il promesso ritiro era quindi effettivamente iniziato proprio alla fine della scorsa presidenza, per poi essere sospeso da Joe Biden appena insediato.

Questa decisione, che potremmo definire un’apertura di credito, non deve tuttavia indurre a credere che il problema sia sparito; al contrario, il destino della Nato sarà certamente uno dei temi, se non il tema principe, dei rapporti tra Biden e l’Europa.

La seconda discrasia transatlantica riguarda ovviamente la politica commerciale. Anche in questo caso la questione è vecchia almeno quanto l’Unione Europea stessa, e riguarda le accuse reciproche tra le due sponde dell’Atlantico su chi stia ponendo le barriere doganali maggiori e attui una legislazione più protezionista.

I settori siderurgico, automobilistico, alimentare e delle energie rinnovabili sono solo alcuni protagonisti di questa lunga querelle, che iniziò ad aggravarsi verso la metà degli anni ’90 ed è periodicamente emersa fino ad Obama.

Trump arrivò, nel corso del suo mandato, ad emettere un ordine esecutivo chiamato “Buy American, Hire American”, il quale non solo scoraggiava l’acquisto di prodotti stranieri ma anche l’assunzione di lavoratori non americani.

Su questo i segnali lanciati dal neoeletto Biden non sono esattamente quelli voluti da Bruxelles. Da una parte è vero che l’ordine esecutivo di Trump è stato ritirato e sostituito da un più rassicurante ed inclusivo “Made in all of America”, ma dall’altra non si può ignorare quanto i contenuti del nuovo testo riprendano esattamente le stesse indicazioni del precedente (come sottolineato dalla stessa Casa Bianca).

Alcuni Stati europei esportatori – tra cui Francia, Germania e Italia – hanno un bisogno urgente di far ripartire tutte le filiere di prodotti destinati agli Stati Uniti, se non altro per compensare il calo di scambi che si è registrato durante la pandemia, e la nuova/vecchia politica commerciale di Biden per il momento non aiuterà.

Un terzo tema più controverso e meno “tradizionale”, per così dire, è quello sulla regolamentazione delle compagnie tecnologiche in Europa, le quali sono, come è noto, soprattutto americane.

Il dibattito a questo riguardo è diventato caldo negli ultimi anni a causa della crescente interferenza dei social network, dei motori di ricerca e delle app nel dibattito democratico europeo (ed occidentale).

La questione è politicamente dirimente, perché dietro alla protezione della democrazia e alla salubrità di internet si cela un aperto tentativo da parte dei governi europei, fiancheggiati dalla Commissione, di rendere le multinazionali USA più responsabili delle loro azioni, legalmente e fiscalmente.

Una volta il tema era legato soprattutto alle tasse irrisorie che queste compagnie pagano a fronte di grandi profitti registrati nell’Unione Europea; ultimamente invece il timore è che l’agone politico in Europa sia sempre più dipendente dalle idee e dai capricci di giovani CEOs californiani, fortemente ideologizzati ed americano-centrici.  

In questo senso, a preoccupare non sono solo le conseguenze della “cultura della cancellazione” che si sta affermando oltreoceano, ma anche la controversa applicazione di policies che non riflettono la realtà percepita dai cittadini europei.

Un episodio eloquente a questo riguardo è stata la scelta del Presidente Macron e della Cancelliera Merkel di criticare aspramente Twitter per aver sospeso l’account di Donald Trump in occasione dell’assalto al Campidoglio.

Una protesta diplomatica, quella dei governi europei, inspiegabile per molti, ma che deve essere letta non come un messaggio di simpatia verso il Presidente uscente ma come un primo monito per le società tecnologiche globali.

Il tema si lega strettamente al concetto di “autonomia strategica europea” che si sta affermando ultimamente ed è diventato uno dei cavalli di battaglia della Commissione Von der Leyen.

L’idea di un’UE non dipendente dagli Stati Uniti, tanto per la Difesa quanto per lo Sviluppo di reti tecnologiche ed infrastrutturali, è infatti uno dei cardini sui quali si stanno strutturando le iniziative di Bruxelles, dal bilancio pluriennale UE al Recovery Fund.

La progressiva crescita di statura e di responsabilità internazionali per l’UE mal si concilia con una ripresa dei rapporti tra gli USA e gli Stati membri ed è anche ostativa rispetto ad una politica americana che tratti allo stesso modo UE e Regno Unito.

Per questo motivo, al di là della questione climatica, sul quale sicuramente si troveranno delle convergenze transatlantiche forti, e dell’emergenza pandemica, l’amministrazione Biden ha davanti a sé una strada in salita per ricucire i rapporti con l’Europa.

Il rientro immediato negli accordi di Parigi sul cambiamento climatico è un segnale distensivo da parte della nuova amministrazione ma che potrebbe non bastare.

L’interesse europeo per la transizione ecologica è certamente importante dal punto di vista valoriale, ma insufficiente da solo a ribaltare il quadro della situazione fin qui delineata, soprattutto se non corrisposto da iniziative di apertura commerciale.

La storia dei prossimi anni, quindi, è tutta da scrivere e nessun esito è scontato.

Agli osservatori più attenti non è sfuggito, per esempio, quanto l’avvicinamento tra UE e Cina stia procedendo velocemente negli ultimi anni. Proprio alla fine del 2020, l’UE ha firmato una prima intesa (Comprehensive Agreement on Investment – CAI) proprio con il governo di Pechino, contenente una promessa di sostanziale apertura del gigante asiatico agli investimenti europei.

L’ esito delle elezioni americane (ovviamente) non ha cambiato il proposito della Commissione o di alcuni Stati, in primis la Francia, di rafforzare i legami con la Cina e di gettare le basi per una cooperazione economica sempre più stretta tra i due attori.

Il semplice cambio di colore politico a Washington probabilmente non sarà sufficiente ad invertire la corrente, nonostante i prevedibili sforzi che verranno fatti dal nuovo Presidente per riconquistare la fiducia del più antico alleato degli Stati Uniti.

Al di là della retorica antipopulista e delle dichiarazioni di principio, la vera sfida non sarà quella di arginare fantomatiche derive autoritarie, ma di capire se e quanto l’Europa investirà sul suo status di potenza globale autonoma, e quanto gli Stati Uniti la lasceranno andare per la sua strada, volgendo lo sguardo definitivamente al Pacifico.

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