Il futuro delle telecomunicazioni in Italia: un problema di stabilità politica
Il futuro delle telecomunicazioni in Italia

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Più che il possibile futuro di Telecom Italia che emergerebbe anche dall’ ultima proposta del garante del M5S sulla spinta del rinnovato vigore dato al tema in questione dalla scossa di Kkr, in ballo c’è il futuro di una vera transizione digitale in Italia, il cui esito positivo non può sottovalutare il vero driver della questione:

Di Massimo Comito

e cioè il valore della “credibilità” e della “reputazione” dell’Italia nei confronti dell’Europa che, questa volta sì, potrebbe aiutare il paese a uscire dalla complicata situazione che governo, azionisti, lavoratori e sindacati stanno affrontando sul tema.

Un’Europa che, ricordiamolo, pretenderà con fermezza che i fondi comuni del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza -Pnrr- siano impiegati nel rispetto puntuale degli impegni presi e delle regole dell’unione, prime fra tutte, quelle sulla concorrenza.

Ma procediamo con ordine.

La “creazione di due reti in fibra in concorrenza sul mercato wholesale” citata come qualcosa ancora da realizzare è a ben vedere piuttosto il “mantenimento di due o più reti” o ancora meglio il riconoscimento definitivo di una situazione di concorrenza infrastrutturale che oggi in Italia già esiste grazie a scelte politiche precedenti e che l’Europa apprezza.

Operano da tempo in concorrenza Open Fiber e Tim e non solo; spesso dimentichiamo i tanti player, nazionali e locali, in-house regionali e comunali, che stanno già realizzando reti di nuova generazione.

Reti sia in fibra che in tecnologia FWA che ormai da qualche anno stanno spingendo “l’innovazione”: per ricordarne solo alcuni, Eolo, Linkem, Unidata, Lepida, Isiline, Convergenze, oltre che Fastweb, Vodafone, Wind3, che stanno facendo tutti la loro parte da anni.

E gli investitori istituzionali almeno quelli che investono in infrastrutture, ovviamente a lungo termine, ci sono già, da Kkr a Macquarie a Partners Group e sono parecchio interessati.

Se tutti diamo ormai per assodato, a partire dagli ultimi governi che si sono avvicendati -opposizioni comprese- che sono altamente strategiche le infrastrutture di cui trattiamo -che comprendono la rete primaria e secondaria di Tim, il cloud, i cavi sottomarini, la cybersicurezza- le modalità di uscita dello stato da Open Fiber -attraverso Cdp- ipotizzata è tutta materia da approfondire meglio.

Viene affermato che le plusvalenze dalla vendita di Open Fiber dovrebbero essere utilizzate da Cdp per un “rafforzamento patrimoniale di Tim attraverso un aumento di capitale a lei dedicato”.

Per dare il giusto significato alle parole, molto semplicemente ciò vuol dire che Cdp dovrebbe cedere il controllo di un operatore wholesale-only (Open Fiber) e rafforzare, probabilmente fino al controllo, la sua partecipazione questa volta nella sola Tim, così com’è oggi con tutte le aziende satelliti, affiancando azionisti privati nella compagine azionaria.

Così facendo innegabilmente si consentirebbe a Tim di “migliorare il rating complessivo dell’azienda, diminuire l’eccessivo debito e recuperare la flessibilità finanziaria necessaria per sostenere gli investimenti futuri” e di rassicurare tutti circa la sicurezza nazionale -con il controllo degli asset strategici suddetti- il mantenimento e lo sviluppo del know-how, dei livelli occupazionali di Tim senza arrivare ad uno “spezzatino” dai possibili elevati costi sociali.

Direi la quadratura del cerchio. Il sogno di tanti che tifano per i “campioni nazionali”: ricostruire un’azienda di telecomunicazioni a forte partecipazione dello stato che restituirebbe stabilità all’azionariato, assicurerebbe il presidio della sicurezza nazionale, restituirebbe, perché no, al paese un operatore di telecomunicazioni forse in grado di ributtare un occhio ai mercati internazionali come sta facendo egregiamente Enel in campo energetico.

È sotto gli occhi di tutti che il mondo -nel frattempo- è molto cambiato: tanti passaggi di questa soluzione non sono esplicitati e le apparentemente semplici soluzioni finanziarie individuate non affrontano i possibili e prevedibili impatti degli scenari politico-economici, italiano e soprattutto europeo, attuali.

Se appare abbastanza chiaro come Cdp possa vendere la propria partecipazione in Open Fiber, visto il buon lavoro svolto in poco più di cinque anni, il florido andamento del mercato delle infrastrutture in fibra e l’appetibilità dei fondi europei cui l’operatore wholesale-only potrebbe potenzialmente accedere, non lo è per nulla come si possano utilizzare le auspicate plusvalenze derivanti da tale vendita per ottenere il controllo di Tim.

E sì, perché per controllare gli asset sensibili elencati prima e senza vendere le parti interessate -che potrebbe effettivamente avere un pesante impatto occupazionale- è necessario un management attentamente selezionato e quindi un forte peso di Cdp in un’azienda -completamente integrata con cavi internazionali, cloud, cybersicurezza, rete e offerta retail- che compete con gli altri operatori: sia quelli che costruiscono le infrastrutture e le vendono all’ingrosso, come la nuova Open Fiber senza Cdp, sia quelli che, oltre a fare questo, vendono i servizi chiavi in mano ai cittadini, cioè la totalità degli operatori presenti in Italia.

Ora, poiché la soluzione fin qui descritta ricorda i profili di partecipazione azionaria presenti ancora negli incumbent di alcuni importanti Paesi Europei come Francia e Germania, dove entrambi i governi hanno partecipazioni a doppia cifra nei rispettivi incumbent e cioè Orange e Deutsche Telekom AG, il nodo della questione è se tali importanti precedenti presenti in Europa potrebbero giustificare il tentativo di far valere sulla questione il rinnovato peso dell’Italia di Draghi nei confronti dell’Europa con un orizzonte temporale adeguato.

Con tali premesse e visto che:

-Francia e Germania hanno anche e comunque visto aumentare negli anni gli investimenti sia privati che pubblici nelle infrastrutture, sia a livello locale che nazionale e quindi non possono essere additati come due realtà in cui la forte presenza dello stato ha limitato la concorrenza, sia infrastrutturale che retail, e

-che il Pnrr italiano, per la parte relativa alle infrastrutture per la connettività, prevede regolari gare per l’attribuzione dei fondi europei fra tutti gli operatori che vorranno partecipare non prefigurando aiuti di stato ostativi,

per concludere -e sempre che la cosa abbia un senso da un punto di vista economico/patrimoniale e finanziario- mi permetto di porre all’attenzione solo alcuni degli snodi che in questo eventuale percorso dovrebbero essere affrontati.

Ad esempio:

Cdp dovrebbe fare un’offerta pubblica d’acquisto come Kkr o meglio quale sarebbe la quota minima dello stato per potere restituire una struttura azionaria stabile a Tim con l’attuale posizionamento sul mercato? Quale sarebbe la reazione dell’Europa, di Agcom, di Agcm e dei competitor italiani ad una simile proposta? Saremmo ancora in tempo?

Ma al di là di tutto il nocciolo della questione è se appare plausibile e con qualche possibilità di successo, tentare di far valere la rinnovata “share of voice”, che l’Italia ha recentemente guadagnato in Europa con Draghi, per ripristinare un assetto societario dell’incumbent che in Francia e Germania non è mai cambiato nella gestione delle telecomunicazioni con la guida strategica dello stato.

La vera questione è la “stabilità politica” … che è sempre stato un problema, almeno da noi.

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