I mercati finanziari e le politiche di sostegno all’economia reale
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L’inizio di questo secolo è stato teatro di frequenti crisi di ogni tipo e spessore ma anche di iniziative in materia di politica economica mai sperimentate precedentemente.

Di Antonio Mele

In risposta alle crisi sanitaria, economica e sociale arrecate dalla pandemia purtroppo ancora in corso, i bilanci delle banche centrali si sono dilatati di diversi trilioni di dollari e altrettanto generose appaiono essere le azioni e le intenzioni dei governi in materia di politica fiscale.

Negli Stati Uniti, l’amministrazione Biden si appresta a mettere in opera un nuovo pacchetto fiscale di quasi 2000 miliardi di dollari. L’Ue ha risposto sinora con un piano di intervento dello stesso ordine di grandezza.

Questo piano riveste, come sappiamo, un’importanza politica fondamentale: per la prima volta nella sua storia, l’Ue adotta una vera e propria politica fiscale finanziata da debito comune, nel tentativo di arginare uno degli shock economici più violenti nell’intera storia contemporanea.

Queste misure alimentano la speranza di ritornare a una vita normale e forniscono anche qualche concreta certezza. Non è poco. La società versa oggi in uno stato d’incertezza così profonda che i mercati, reali e finanziari, se abbandonati a loro stessi, non sarebbero più in grado di ritrovare un qualche e imprecisato stato di equilibrio se non al costo di decenni di stagnazione.

Lo Stato e i suoi massicci interventi sono a ricordare che la società, non solo l’economia, ha bisogno di istituzioni e di guide democratiche sicure.

Peraltro, le politiche intraprese sono proprio da manuale; tutte, potenzialmente, quindi, detengono il potenziale di curare un’economia maltrattata come mai noi avremmo immaginato solo un anno fa. Persino la cosiddetta “politica monetaria non convenzionale” è oramai divenuta “convenzionale”.

La Figura 1 dipinge un quadro a dir poco inenarrabile. In meno di un anno, la Fed e la Bce hanno sostanzialmente raddoppiato la quantità di risorse di liquidità a disposizione dell’economia. Eravamo soliti pensare che compito di una banca centrale fosse quello di reagire a shock congiunturali al fine di assicurare la stabilità dei prezzi (e quindi del valore della moneta).

Prolungare per così tanto tempo tali risposte per gli stessi fini conferisce un nuovo carattere a questa politica. Questo nuovo carattere è ancora più marcato in paesi come gli Stati Uniti, dove la Fed continua a sostenere classi di attività finanziarie che erano state all’epicentro della crisi finanziaria globale del 2007-2009.

Siamo in grado di comprendere se questo policy mix (fiscale e monetario) riuscirà a liberare le economie occidentali dalle trappole in cui esse stesse si trovano? Quali sono gli effetti collaterali e indesiderati di queste politiche? Comprendiamo a fondo i canali di azione e retroazione con cui queste colossali iniziative agiscono sull’economia?

Sebbene il QE (il termine con cui ci riferiamo per descrivere questa politica monetaria) è ormai materia di manuale di economia monetaria, non è, purtroppo, chiaro di cosa questo QE abbia ancora bisogno al fine di potere dispiegare appieno i suoi effetti.

Storicamente, la Bce intraprende il QE tra il 2011 e il 2012, nel bel mezzo della crisi del debito pubblico europeo e di una fase recessiva generalizzata. L’intenzione della Bce era di fornire liquidità a istituti di credito al fine di evitare crisi sistemiche.

Se, per cominciare, una grossa banca detiene titoli di stato con aumentato rischio di insolvenza e, per conseguenza, subisce un deterioramento dei suoi bilanci, i volumi dei prestiti da questa stessa banca concessi non possono che stagnare, contribuendo così a deprimere la domanda aggregata.

Ma una domanda aggregata depressa conduce a un ulteriore aggravamento del rischio di insolvenza delle nazioni più vulnerabili. Si tratta del “circolo diabolico” di cui molti economisti discutevano un decennio fa. La Bce intendeva interrompere questo circolo fornendo liquidità a medio termine a istituti finanziari proprio al fine di evitare eventi disordinati nei mercati con conseguenze devastanti sull’economia reale.

Interventi di simile scopo e portata sono stati ripetutamente messi in opera, ed è inutile che io ne commenti i dettagli in questa sede. L’aspetto forse più significativo è l’acquisto su grande scala di titoli sovrani europei sul mercato secondario.

L’obiettivo principale della Bce era ed è la stabilità dei prezzi. Le economie europee erano e sono afflitte da un’inflazione anemica, che rischia di imbrigliare la domanda aggregata in uno stato stagnante e per decenni. Il grande rischio è l’inflazione negativa. Quasi un secolo fa, gli economisti avevano identificato nell’inflazione negativa una tra le tante ragioni della Grande Depressione degli anni Trenta del secolo scorso. Perché?

Intuitivamente, i debiti non possono che aumentare (in termini reali) quando l’inflazione è negativa. Pertanto, quando l’inflazione è negativa, le probabilità (e le frequenze) d’insolvenza aumentano per le imprese indebitate, contagiando per questa via i bilanci delle banche, deprimendo ulteriormente la domanda aggregata, e causando ancora più inflazione negativa.

Si tratta di un altro esempio di circolo vizioso con effetti finali devastanti: i mercati finanziari, quelli del debito in questa circostanza, amplificano gli sviluppi del ciclo economico reale, funzionando da “acceleratore finanziario”. Esistono tanti altri esempi a illustrare come simili meccanismi di acceleratore finanziario possano innescare sviluppi e volatilità indesiderati del ciclo economico.

Non ho il tempo di parlarne in questo intervento. Ma scongiurare tali sviluppi attraverso una politica monetaria “non convenzionale” è quanto di più ragionevole possa farsi a memoria delle lezioni apprese dalla storia e dal pensiero economico. Non si è trattato e non si tratta di sostenere debito pubblico sovrano (compito non attribuito e a mio avviso non attribuibile alla Bce), ma di garantire la stabilità dei prezzi.

Non esiste cura da cavallo senza effetti collaterali. Si tende, oggi, spesso, a porre in rilievo gli effetti distorsivi di questa cura sui prezzi delle attività finanziarie. Primo esempio tra tutti è la diminuzione dei rendimenti dei titoli governativi. La credibilità della politica monetaria della Bce ha convinto i mercati che il rischio d’insolvenza di titoli sovrani è, almeno per ora, limitato anche per paesi che presentano un indebitamento pubblico superiore al 150% sul PIL.

Si tratta di una conseguenza naturale del QE, sebbene, lo ricordo, non espressamente voluta: lo scopo del QE è la stabilità dei prezzi. In realtà, un costo del debito così basso potrebbe tentare i governi futuri di indebitarsi ulteriormente per iniziative non necessariamente utili per la crescita del Paese.

Ma non per questo la Bce poteva esimersi da un intervento di tale portata. Spetterebbe ai governi futuri dimostrare responsabilità e lungimiranza. Sono riuscite le banche centrali a riavvitare quei sani processi inflattivi volti a garantire la stabilità finanziaria? È ancora troppo presto per dirlo.

Vi è tuttavia un timore diffuso che uno degli effetti collaterali di una politica monetaria così espansiva sia stata un’inflazione delle quotazioni azionarie, con prezzi presumibilmente distorti e, pertanto, non in grado di dirci davvero molto sui fondamentali dell’economia: la Figura 2 fa vedere che, a dispetto dei gravissimi sviluppi economici, le valutazioni borsistiche sono a dir poco euforiche. La domanda del tutto naturale è: quali saranno le conseguenze del QE per l’economia reale? Sarebbe auspicabile che l’esuberanza finanziaria rappresentata nella Figura 2 corrispondesse a un quadro macroeconomico internazionale quanto meno positivo.

Il timore è, invece, che questi prezzi abbiano un carattere autoriflessivo, conseguenza (non intenzionale) di una liquidità alla frenetica ricerca di profitti immediati e apparentemente non in rapporto con l’economia reale, con l’occupazione per esempio, e in generale con l’aspettativa di un rapido ripristino di una situazione di normalità.

Andiamo più in fondo. La Figura 3 rappresenta l’evoluzione dei prestiti bancari erogati a aziende non finanziarie nell’ultimo ventennio e nell’area euro. I paesi “centrali” sembrano avere tratto benefici dal QE. I paesi “periferici” (tra cui l’Italia) sembrano invece essere afflitti da una “regressione finanziaria”: in Italia, le banche sembrano prestare meno proprio quando è necessario prestare di più.

Questa “prociclicità” nell’erogazione del credito rappresenta una vera e propria défaillance dei mercati che andrebbe curata con strumenti adeguati e perentori. I meccanismi di trasmissione di politica monetaria non sono compresi sino in fondo in questi frangenti storici.

Ma questi dati fanno sorgere il sospetto che la crisi pandemica non presenterà i tratti rigorosi di uno “shock simmetrico”: non tutti i paesi saranno necessariamente colpiti nello stesso modo.

Da dove proviene questa asimmetria nel comportamento dei sistemi creditizi in Europa? Perché, per esempio, l’Italia versa in queste condizioni? Forse le banche italiane prestano meno che in altri paesi a causa di una domanda di credito meno qualificata? È la regolamentazione sui requisiti di capitale (figlia sicuramente legittima della crisi finanziaria globale) ad essere particolarmente stringente? Oppure, forse, le stesse banche italiane non prestano proprio perché travolte da grandi difficoltà? Occorrono dati granulari per affrontare temi di identificazione statistica così delicati.

Vale tuttavia ricordare che la domanda aggregata interna è oggi depressa più che mai e che, qualunque ne sia la ragione, il sistema creditizio sta fallendo nella missione di irrorare ninfa vitale nelle vene dell’economia reale. Ci troviamo, ancora una volta, nella trappola dell’acceleratore finanziario.

I mercati creditizi funzionano male perché l’economia reale è bloccata e perché l’appetito al rischio delle banche è scarso in previsione di bilanci ingolfati da crediti deteriorati; d’altro canto, l’economia resta bloccata (anche) perché i mercati creditizi non stanno funzionando.

A rendere questa spirale ancora più perversa è il sovrapporsi di un ulteriore circolo vizioso, quello dell’incertezza-stagnazione-incertezza, innescato dalle incertezze relative alle grandi emergenze sanitarie, economiche e sociali: a causa di queste incertezze, nei prossimi anni le banche presteranno poco, e la domanda aggregata rimarrà depressa; ma questa domanda depressa contribuirà a uno scarso appetito per il rischio.

Quando gli animal spirits operano in questo modo, lo Stato deve intervenire. Il Recovery Plan è sicuramente un punto di partenza fondamentale per il rinnovo e il potenziamento delle produttività del Paese.

Ma i mercati reali necessitano di un ulteriore sostegno. Essi dovrebbero essere resi partecipi di parte dei processi decisionali di finanziamento. Non è sufficiente pianificare una politica fiscale, seppur massiccia, come quella che sta per essere approntata con il Recovery Plan.

Occorre anche creare gli incentivi affinché il sistema creditizio possa cominciare a prestare di nuovo, a beneficio dei settori meritevoli, quelli con alta produttività e in grado di trasformare il volto del Paese, valorizzando quelle vocazioni imprenditoriali italiane rimaste per così troppo tempo inespresse. Negli anni del miracolo economico, gli istituti di credito speciale e la finanza basata sulle garanzie statali soppiantò la finanza del rischio. Una sostituzione discutibile e discussa dagli storici economici.

Ma nelle circostanze odierne, le nostre banche mal digeriscono il rischio. Sostenere il sistema creditizio con garanzie pubbliche rappresenta l’anello mancante al policy mix monetario e fiscale di cui i nostri tempi necessitano. Una via, forse solo iniziale, per intraprendere questi obiettivi potrebbe consistere proprio nel destinare una parte del Recovery Plan a costituzione di garanzie statali al sistema creditizio.

È prematuro in questa sede progettare forma e sostanza di governance e, soprattutto, dei meccanismi di trasferimento dei rischi. Giova ricordare che l’Italia già dispone di strutture istituzionali pubbliche in grado di recepire un progetto di tale portata. Peraltro, i meccanismi di trasferimento dei rischi non possono ignorare di includere incentivi volti a evitare il “rischio morale”. Non si tratta di elargire sovvenzioni a pioggia. Al contrario, le banche devono essere incentivate a prestare bene.

Affinché gli interessi delle banche siano allineati agli interessi dello Stato (e, quindi, della collettività), è pertanto necessario che le garanzie statali siano allo stesso tempo accompagnate da una parziale condivisione dei rischi da parte del sistema creditizio (skins in the game), una condivisione imprescindibile per la responsabilizzazione del sistema creditizio.

Maggiore è la condivisione di questi rischi, minore sarà il peso del debito futuro attribuibile all’esistenza di queste garanzie. Maggiore è questa stessa condivisione, minori saranno gli incentivi che le banche avranno nell’erogare crediti. Sarà la politica a dovere trovare un punto di equilibrio in questo difficile dilemma.

Questo è il momento di cui l’Italia ha bisogno per far dialogare Stato, mercati e istituzioni. Non avremmo certo avuto bisogno di tali proposte se non fossimo giunti sin qui. Le risorse del Recovery Plan sono limitate. Esse serviranno a disinnescare alcune delle trappole di cui ho cercato di discutere in questo intervento.

Ma il vero obiettivo è la nascita di un sistema economico creativo e in grado di autosostenersi restituendo ai mercati finanziari una funzione nobile e ausiliaria di sostegno a una crescita robusta e durevole.

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