Tlc italiane, occorrono focus, scelte autonome e una solida strategia di business
Tlc italiane, occorrono focus, scelte autonome e una solida strategia di business

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L’andamento del titolo Tim di queste ultime settimane con macro tendenza ribassista rispetto al valore raggiunto a seguito della scossa di Kkr dello scorso novembre, esplicita un atteggiamento del mercato, degli investitori e di tutti gli stakeholder che val la pena analizzare e che avrà conseguenze sulle telecomunicazioni italiane nel loro complesso.

Di Massimo Comito

La perdita dichiarata di 8,7 miliardi di euro -post svalutazioni e pulizie varie- del 2021 insieme a stime secondo alcuni “inerziali” sui risultati futuri, hanno avuto un peso importante ma la strategia che il nuovo Amministratore Delegato ha illustrato attraverso linee guida solo di massima -splitting in ServCo e NetCo e progetto di fusione della NetCo con Open Fiber- forse rappresenta il nodo della questione su cui sono inciampati i precedenti amministratori.

La mancanza di particolari circa un dettagliato piano di sviluppo -previsto solo per giugno- e l’aver messo in stand-by per mesi l’offerta di Kkr non hanno certamente aiutato, ma va valutato anche che il mercato forse considera il proposito, ancora fortemente sostenuto, della creazione di una rete unica italiana un evento le cui leve per la realizzazione non sono affatto nelle mani dell’AD che un piano attuabile e credibile invece deve costruire.

È evidente che la possibile creazione di una società di rete unica, e l’eliminazione di una vera competizione nella costruzione delle infrastrutture, viene percepita come un “vero affare” per gli azionisti della potenziale società ed in proporzione alla rispettiva partecipazione azionaria in essa che ne determinerà il controllo -tenendo sempre presenti i forti vincoli regolatori dell’Europa dai quali non si può prescindere.

Se ne dovrebbe dedurre che il continuo riferimento ad una società di rete unica a controllo statale dovrebbe essere un obiettivo primario di Cdp piuttosto che di Tim che forse si dovrebbe concentrare decisamente sulla propria rete secondaria che il fondo Kkr, ma non il solo, ha dimostrato di apprezzare avendone acquistato già il 37,5% per 1,8 miliardi di euro.

Allora: il focus sui propri investimenti nelle infrastrutture con un partner di tutto rispetto come Kkr e con modelli più fair di co-investimento con gli altri operatori, una chiara apertura verso il mantenimento della concorrenza infrastrutturale (che aiuta il deployment della rete nazionale e quindi l’ottenimento del consenso del governo) rinunciando, anzi opponendosi, alla creazione di una rete unica, la spinta da vero leader del mercato retail, fisso e mobile, attraverso le proprie reti e attraverso accordi commerciali di “buon senso” con gli altri operatori/player per reti e contenuti, il ripensamento sulle attività brasiliane, forse sono obiettivi gestibili dal management e, se adeguatamente sviluppati, potrebbero convincere di più analisti, investitori e stakeholder in genere: tutti loro si aspettano, in questa fase, una strategia autonoma, decisa e coraggiosa rispetto a disquisizioni senza fine e supportate da schiere di advisor sia tecnici che finanziari che spingono sulle sinergie e sul potenziale di una rete unica a controllo dello Stato come end-state di medio-lungo termine.

Tra l’altro, la pur corretta decisione circa il massimo di 8 lotti su 15 da assegnare ad un unico soggetto (come ci ha insegnato il Piano BUL), nell’imminente gara per le aree grigie relative a 7 milioni di indirizzi, è poco compatibile, dal punto di vista dell’Europa, con l’aggiornamento prematuro delle già approfondite sinergie (sulla cui entità si può credere o meno) con Open Fiber e con una rete unica futura che potrebbe forse vedere allocati gran parte dei 3,7 miliardi di euro di fondi del Pnrr ad un unico operatore che si costituirebbe con la fusione fra NetCo e l’operatore wholesale-only di Cdp e Macquarie.

E questo alimenta confusione e non aiuta il consenso degli stakeholder che, a parte progetti di ingegneria finanziaria che possono pur sbloccare il valore di alcuni asset come la rete, si aspettano prima di tutto di capire come le parti o i diversi asset potrebbero contribuire coerentemente e all’unisono allo sviluppo del business reale, nel rispetto dei vincoli regolatori europei, sotto la guida del nuovo AD.

E non contribuisce a fare chiarezza la posizione di alcune parti presenti nel complesso scenario che, da un lato si dichiarano a favore di una rete unica a controllo statale come baluardo contro un’ormai improbabile duplicazione degli investimenti (perché già pianificati dalle gare del Pnrr) e dall’altro invocano ancora un campione nazionale verticalmente integrato con il supporto finanziario di Cdp senza riconoscere che ciò è in contrasto con la rete unica invocata allo stesso tempo.

In mancanza di una chiara strategia sulle tlc italiane “a tutto campo” da parte del governo auspicata da molti (si spera solo perché ancora non resa pubblica), per ora forse sarebbe maggiormente indicato procedere il più speditamente possibile con un dettagliato e vigoroso piano stand-alone, innegabilmente non scevro da sfide difficili, ma indipendente da Cdp che per conto del governo ha un interesse stringente e comprensibile verso le infrastrutture del paese e non verso l’uno o l’altro operatore, senza contravvenire alle regole europee sempre più pregnanti.

D’altra parte il governo potrebbe veramente riconfigurare le tlc italiane per il prossimo futuro, magari attraverso un ripensamento del proprio posizionamento strategico -che andrebbe decisamente sostenuto nei confronti dell’Europa- su reti, gestione dei servizi, cloud, sicurezza, cavi internazionali, concorrenza infrastrutturale e quant’altro adeguandosi ai principali paesi europei dove incumbent verticalmente integrati e a partecipazione pubblica competono con diversi operatori sia sul versante delle infrastrutture che su quello retail: ma questo a Tim, per ora, non deve e non può interessare perché è qualcosa che non controlla direttamente.

La variabile dell’offerta di Kkr resta ma, sia la recentissima apertura del tavolo con il fondo già partner in FiberCop, sia il nuovo interesse di diversi altri fondi ad investire sia nella NetCo che nella ServCo, potrebbero riservare sorprese: invero, al momento, poco comprensibili nella loro origine per cercare di immaginare uno scenario finale coerente ma soprattutto utile per tutti.

Una cosa deve essere però ben chiara: governo e Cdp potrebbero perdere un treno che non passerà nuovamente.

Rinunciare definitivamente al mantenimento della guida strategica su un incumbent verticalmente integrato -un’azienda, ricordiamo, ad alto potenziale tecnologico ed economico- assistendo passivamente alla scomposizione in “pezzi”, di proprietà di partner industriali e fondi di investimento perlopiù stranieri, in nome di un’infrastruttura primaria e secondaria unica a controllo pubblico, potrebbe forse non essere la scelta migliore per un paese come l’Italia.

La vera trasformazione digitale, il mantenimento e lo sviluppo del know-how per vecchie e nuove generazioni, la sicurezza, la proprietà e sovranità dei dati attraverso un polo strategico [nella sostanza] nazionale, si realizzano sui “servizi” e non c’è nulla di più strategico del governo dei servizi di telecomunicazioni per accompagnare la transizione digitale di alto livello e sicura di un paese. Tutto quello che stiamo vivendo ce lo sta insegnando.

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