Con l’attuale crisi pandemica, e il contesto storico-sociale che ne è derivato, non può essere taciuta l’interazione e le differenze tra telelavoro e Smart Working, cui si è massivamente fatto ricorso.
Di Dario Calderara e Pietro Serbassi
Come noto, il lavoro agile è disciplinato dalla legge n. 81/2017, mentre ancora manca una fonte legislativa che regoli il telelavoro che, nel settore privato, si regge su una norma pattizia quale è l’Accordo Quadro del 9 giugno 2004 – sottoscritto dalle Associazioni dei Datori di lavoro e dalle confederazioni sindacali – che ha recepito quello europeo del 16 luglio 2002, stipulato a Bruxelles tra CES, UNICE/UEAPME e CEEP.
L’art. 1 considera il telelavoro come «una forma di organizzazione e/o svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie dell’informazione nell’ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività lavorativa, che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa» definendo, quindi, l’istituto come una modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, in cui il lavoratore esegue con regolarità l’attività da un luogo esterno.
Ne rimane escluso tuttavia il cd. telelavoro “in alternanza” in cui la prestazione è svolta in parte all’esterno e in parte all’interno dell’azienda attraverso l’uso di strumenti tecnologici, senza accenno alcuno al tipo di postazione che deve essere utilizzata, ad eccezione di quanto previsto nella P.A. in base all’art. 5 dell’Accordo Quadro Nazionale del 23 marzo 2000 rubricato “Postazioni di lavoro e adempimenti dell’amministrazione”.
Le diverse forme di telelavoro si distinguono in ragione del luogo di svolgimento della prestazione lavorativa come, ad esempio, presso l’abitazione del lavoratore (cd. telelavoro domiciliare).
Ciò che, probabilmente, qualifica questa nuova forma di lavoro è la regolarità della prestazione svolta all’esterno dei locali aziendali, ma -come noto- prevalenza non equivale a esclusività e, per il telelavoro, non viene richiesta una continuità della prestazione resa fuori dall’azienda, a differenza del lavoro agile in cui quest’ultima prestazione è accessoria a quella prestata all’interno dell’impresa.
Le due fattispecie, già da questa prima analisi, non sono coincidenti e presentano sensibili differenze.
Preliminarmente è rilevante evidenziare la differenza più lampante, cioè il fatto che la disciplina del patto individuale di lavoro agile, consenta all’autonomia individuale di conservare degli spazi d’intervento con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo, di controllo e disciplinare, sconosciuti invece alla fattispecie del telelavoro.
Il lavoro agile prevede poi che la prestazione sia svolta in parte all’interno dell’azienda, evidentemente distinguendosi in questo dal telelavoro in cui la modalità organizzativa risulta essenzialmente diversa.
Nel telelavoro, inoltre, l’organizzazione dell’attività «si avvale delle tecnologie dell’informazione», mentre nel lavoro agile è solamente potenziale l’utilizzo «di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa».
Di fronte ad una possibile area di sovrapposizione, dovuta dall’utilizzo di strumenti tecnologici all’esterno dei locali aziendali concesso in entrambi gli istituti, in ambo i casi le regolamentazioni relative agli strumenti devono realizzarsi prima dell’inizio della prestazione.
La differenza sensibile può rinvenirsi nel trattamento dei dati utilizzati e elaborati dal telelavoratore per fini professionali, derivanti dall’utilizzo di strumenti tecnologici, poiché quest’ultimo è “limitato” al rispetto di tutte le norme di legge e dalle regole aziendali applicabili, relative alla protezione dei dati.
A differenza, invece, del lavoratore agile che ha la possibilità di “personalizzare” ossia di regolare, nell’ambito di specifiche disposizione di legge, il trattamento dei dati utilizzati e elaborati per fini professionali, tramite un accordo individuale tra le parti – il cd. patto di lavoro agile – oppure attraverso l’intervento della contrattazione collettiva, purché siano rispettate le norme di legge.
È sostenibile, quindi, che il lavoratore agile abbia margini di intervento sulla disciplina dei dati utilizzati ed elaborati per fini professionali più ampi, la cui discrezionalità è sempre circoscritta al rispetto dei limiti legali, seppur con modifiche potenzialmente attuabili nel patto agile.
È proprio in capo a questo diritto del lavoratore agile, non previsto invece per il telelavoratore, che si esplicita la personalizzazione del trattamento dei dati utilizzati ed elaborati per fini professionali.
Infine, a differenza del lavoro agile, che viene espressamente qualificato dal legislatore come modalità di svolgimento del rapporto di lavoro subordinato, il telelavoro non è qualificato necessariamente come forma di lavoro subordinato, ma, come inizialmente parte della dottrina aveva ritenuto, anche compatibile con una modalità di lavoro autonomo.
In ogni caso, come per l’utilizzo all’esterno dei locali aziendali degli strumenti tecnologici, il rapporto tra i due istituti è rappresentato da aree di sovrapposizione e, nelle zone di intersezione, consegue un concorso di discipline in cui non sempre è agevole districarsi.
Propendere per la coincidenza o meno degli istituti ha, sicuramente, una grande importanza in materia di salute e sicurezza e della tutela contro gli infortuni sul lavoro.
Nell’ipotesi sinora sostenuta in cui il lavoro agile non sia coincidente con il telelavoro, non sarebbe possibile estendere alla prima fattispecie, ai sensi dell’art. 3, comma 10, d.lgs. n. 81/2008, gli obblighi di salute e sicurezza della seconda e la soluzione prospettabile riguarderebbe l’applicazione analogica delle tutele, a patto che l’interpretazione tenga conto delle peculiarità del lavoro agile che, a causa della diversa natura, richiederebbero obblighi di salute e sicurezza differenti dagli standard abituali.
Oltre che nell’ambito del settore privato, per completezza di analisi della fattispecie, va effettuata una analisi del telelavoro nella P.A. in cui il parallelismo fa emergere caratteristiche comuni e non. Telelavoro e Smart Working nel settore pubblico, infatti, spesso coincidono, poiché entrambe le fattispecie condividono la disarticolazione spaziale della prestazione lavorativa, oltre alla flessibilità dell’orario di lavoro.
Gli elementi di distinzione riguardano: l’alternatività della prestazione, che nel telelavoro non è prevista; l’utilizzo delle tecnologie dell’informazione, che nel lavoro agile è solo eventuale e la presenza di una postazione che è concepita in un modo differente da quello in cui viene intesa nel lavoro agile.
Secondo l’art. 5 d.P.R. n. 70/1999, la stessa postazione viene messa a disposizione del lavoratore, installata e collaudata dal datore di lavoro ed è “il sistema tecnologico costruito da un insieme di apparecchiature e di programmi informatici, che consente lo svolgimento di attività di telelavoro.”
Ai sensi dell’art. 18, l. n. 81 del 2017, il lavoro agile è invece caratterizzato dall’assenza di una postazione fissa, fatto questo che potrebbe essere inteso come la probabile completa affrancazione del lavoratore agile dall’ufficio di lavoro e, al contempo, sempre modificabile, differentemente del telelavoro nelle P.A.
L’art. 5 dell’Accordo Quadro Nazionale del 23 marzo 2000, stabilisce, infatti, in merito alle «spese per l’installazione e la manutenzione della postazione di telelavoro, che può essere utilizzata esclusivamente per le attività attinenti al rapporto di lavoro», facendo sottintendere un legame sicuramente più “stabile” ed intenso con l’“ufficio di lavoro” e facendo gravare sul datore di lavoro pubblico i costi ulteriori non supportati con il lavoro agile.
Che lavoro agile e il telelavoro pubblico non siano totalmente coincidenti, ma presentino aree parzialmente sovrapponibili, lo conferma il dettato della direttiva n. 3 del 2017 della Presidenza del Consiglio dei Ministri che esprime la chiara volontà di differenziare i due istituti, specificando che è necessario «tener conto della differenza tra lavoro agile e telelavoro ed evitare di ridurre la flessibilità ad una mera prestazione lavorativa da casa, mantenendo ferme rigidità che non sono richieste atteso che l’attenzione si sposta dal rispetto di un orario di lavoro al raggiungimento di un risultato».
Dal ragionamento sin qui svolto, la dimensione che contraddistingue il lavoro agile, dal punto di vista del lavoratore, è quella legata alla conciliazione vita-lavoro. Esso rappresenta infatti un modello il cui carattere innovativo risiede tanto nell’eliminazione della necessaria collocazione spazio-temporale della prestazione lavorativa all’interno dell’impresa, quanto nella valorizzazione dell’autonomia delle parti.
Nonostante la disciplina del lavoro agile rappresenti la prima regolamentazione legale di forme di lavoro a distanza nel settore privato, per altro verso presenta alcune criticità nella distinzione dalla fattispecie del telelavoro.
L’accordo delle parti e lo svolgimento di parte della prestazione all’esterno dei locali aziendali in assenza di una postazione fissa sono requisiti molto simili, che rendono difficile individuare campi di applicazione autonomi.
Anche, la qualificazione e gli strumenti utilizzati, sia del lavoro agile che del telelavoro, possono essere, inoltre, ricompresi all’interno di aree parzialmente sovrapponibili ed è proprio in queste aree che si possono ricavare distinzioni in ambo le discipline, come nel caso dell’utilizzo di strumenti tecnologici in cui il lavoratore agile ha la possibilità di “personalizzare” il trattamento dei dati utilizzati ed elaborati per fini professionali.
I due istituti in parola rappresentano due diverse forme di lavoro a distanza, ma nel contesto giuridico-sociale attuale è importante menzionare un’altra forma che è quella del co-working. Attraverso questa forma di lavoro sarebbe, a mio avviso, possibile evitare di mobilitare la maggior parte, se non la gran parte, dei lavoratori consentendo loro di rendere la propria prestazione all’interno di luoghi preposti ad accoglierli attraverso il semplice utilizzo di una smart card.
In questo modo sarebbe possibile contribuire al miglioramento del TPL evitando, o meglio non contribuendo, ad alimentare il traffico urbano, migliorando il servizio ai margini della città e favorendo un ricambio generazionale anche all’interno del TPL stesso mediante lo slogan “più nuovi, anche se meno ti muovi”.