Inflazione_conti pubblici_attività della PA
Inflazione_conti pubblici_attività della PA

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Dopo anni di silenzio, l’inflazione è tornata ad essere, in modo inaspettato, un fattore determinante nella scena politica ed economica mondiale ed avrà, fra le altre cose, un forte impatto sull’attività delle pubbliche amministrazioni.

Di Luciano Cimbolini

Questo ritorno è “inaspettato” semplicemente perché non previsto da istituzioni (banche centrali in primis) e da analisti che, fino a pochi mesi fa, ritenevano solo transitorio il rialzo dei prezzi post pandemia, poiché legato, più che altro, a momentanee strozzature nelle catene di produzione e distribuzione mondiali. Janet Yellen, pur definendo inaccettabili i livelli di inflazione negli Stati Uniti, ha ammesso, con molta onestà intellettuale, il suo errore di valutazione del 2021 quando riteneva un piccolo rischio il rialzo dell’inflazione, poiché valutato comunque come fenomeno momentaneo.

Questa visione, anche a causa delle vicende di guerra che hanno ulteriormente messo in crisi gli approvvigionamenti energetici e alimentari mondiali, è chiaramente ormai superata.

Nella Relazione di Banca d’Italia 2021 presentata il 31 maggio, si legge che nel 2022 l’inflazione in Italia è arrivata vicino al 7%, con un calo ad aprile solo grazie agli interventi del governo in materia di accise e di prezzi dei prodotti energetici.

Anche nell’Area Euro, l’inflazione è salita, collocandosi poco sopra il 6 per cento nella media del primo trimestre del 2022 e al 7,4 in marzo e in aprile (il valore più alto dall’avvio della UEM), a causa sia della componente energetica che ha continuato a risentire dei rincari delle materie prime (molto acuti nel mese di marzo a seguito dell’invasione dell’Ucraina), ma anche di pressioni al rialzo più diffuse, che si sono estese ai prezzi dei beni alimentari, dei beni industriali non energetici e dei servizi.

A livello mondiale, secondo le stime dell’FMI riprese da Banca d’Italia, dai primi mesi del 2021 l’inflazione è rapidamente aumentata nelle maggiori economie avanzate e in molti paesi emergenti. Nel quarto trimestre 2021 i prezzi al consumo sono saliti su base annua del 4,9 per cento nelle economie avanzate e del 6,0 per cento in quelle emergenti (dallo 0,4 e 3,3 per cento alla fine del 2020, rispettivamente). Dallo scoppio del conflitto, le prospettive inflazionistiche globali sono peggiorate, per effetto degli ulteriori rialzi dei prezzi dei comparti energetico e alimentare e di quelli di altre materie prime.

Teniamo presente, inoltre, che tutto questo sta avvenendo in un contesto di mercati finanziari stracolmi di liquidità a causa delle politiche monetarie ultra espansive (acquisti di titoli e costo del denaro nullo o quasi) messe in campo dalle banche centrali, senza soluzione di continuità, a partire dal 2008 e di bilanci pubblici gonfiati anch’essi dalla spesa pubblica sostenuta per far fronte prima alla crisi finanziaria e poi a quella pandemica.

Infine, con ogni probabilità, abbiamo anche una divaricazione fra America ed Europa. L’inflazione negli USA deriva da un surriscaldamento dell’economia a seguito della forte ripresa della domanda di beni e servizi frutto degli stimoli fiscali e monetari messi in campo durante la pandemia. In Europa, invece, ci troviamo di fronte ad un’inflazione da costi, soprattutto dovuta all’aumento dei prezzi dell’energia che poi si scarica in modo diretto ed indiretto sul livello generale dei prezzi.

Da ciò deriva il dubbio sull’effettiva efficacia, in Europa, di un rialzo dei tassi per fermare la corsa dell’inflazione.

Questa situazione pone pesanti incognite sulla situazione di bilancio delle PA. Vediamo quanto meno di inquadrare in visioni prospettica le possibili aree critiche.

La prima sarà certamente quella del costo del debito pubblico. La tendenza al rialzo dei tassi d’interesse, inevitabilmente causata dall’impennata dell’inflazione, peserà sui costi di rifinanziamento del debito in scadenza e sul debito a tasso variabile in essere. Probabilmente sarà necessario rivedere le previsioni del DEF che vedono una spesa per interessi di 65,9 miliardi nel 2022, per poi scendere intorno ai 61,2 miliardi nel 2023/2024 e risalire a 63,2 miliardi nel 2025. Il recente aumento dello spread è probabilmente un indizio di questa tendenza. D’altro canto, però, un’inflazione più elevata rende il debito intrinsecamente meno pesante rispetto ad un contesto deflazionistico, che invece favorisce, in termini di valore reale del capitale, il creditore.

L’altra area critica sarà la spesa per consumi intermedi delle PA che, necessariamente, salirà a causa dell’aumento generalizzato dei prezzi sui mercati, con il quale, anche l’acquirente pubblico, dovrà sottostare. Questa dinamica si rivelerà particolarmente critica sui prezzi di gara degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, creando sicure tensioni anche nella fase attuativa del PNRR, che sconta invece una programmazione “pensata” in un momento storico al limite della deflazione.

Le sempre più frequenti delle difficoltà nel portare avanti procedure di gara già inziate a seguito della necessità di rivedere ed aggiornare i prezzi previsti nei bandi sono il segnale delle difficoltà cui andremo incontro nel breve e medio periodo.

La terza area critica sarà quella dei rinnovi contrattuali, che non potranno non tenere conto della nuova dinamica dei prezzi e di un contesto salariale come quello italiano che ci vede all’ultimo posto per crescita dei salari in Europa negli ultimi 30 anni. Come ci ricorda il Censis, prendendo spunto dai dati dell’OCSE, tra il 1990 e oggi, l’Italia è l’unico Paese Ocse in cui le retribuzioni medie lorde annue sono diminuite: -2,9% in termini reali rispetto al +276,3% della Lituania, il primo Paese in graduatoria, al +33,7% in Germania e al +31,1% in Francia. Sotto questo aspetto il pubblico impiego, pur a fronte di un blocco della contrattazione collettiva durato giuridicamente dal 2010 al 2015 (ma di fatto estesosi per più di un decennio) e venuto meno soltanto a seguito della sentenza n. 178 del 24 giugno 2015 della Corte costituzionale, è in una situazione tendenzialmente migliore rispetto al settore privato. È evidente, tuttavia, che inflazione molto elevata non potrà che comportare maggiori costi nell’ambito dei rinnovi dei contratti nazionali.

Se l’individuazione di questi problemi è semplice, non altrettanto facile sarà trovare soluzioni adeguate.

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