Il coordinamento di finanza pubblica tra i vincoli di bilancio e la qualità della spesa delle autonomie: reingegnerizzare uno strumento necessario.
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Il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario è un modulo di armonizzazione degli obiettivi “interni” di finanza pubblica. È, dunque, lo strumento che permette l’organizzazione del governo dei conti pubblici in linea con gli obiettivi di saldo negoziati tra lo Stato e le istituzioni europee.

È disciplinato dalla Costituzione all’articolo 117, terzo comma e dall’articolo 119, terzo comma. Esercitando una lettura sistemica dell’ordinamento, è proprio quest’ultimo dispositivo, facente parte di un più ampio sistema detto “costituzione economica” italiana ( artt. 81, 97, 117 e 120 come articolo di chiusura ), a rinnovargli continuamente le finalità.

Di Gianmarco Cialone

Fin dalla prima forma di coordinamento interno, Governo ed Autonomie (regioni e enti locali) hanno trovato nella sede del Patto di stabilità interno e nel Patto di convergenza, il luogo di concertazione e discussione degli obiettivi di spesa pubblica.

Tali obiettivi hanno condizionato in profondità sia il quantum di bilancio (ossia l’ammontare pratico della capacità di spesa regionale e locale) che l’esercizio di indirizzo politico delle Autonomie (garantito sia in sede costituzionale che in sede di Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea).

Inseriti in un intricato quanto complesso sistema di norme e prassi, l’impianti di coordinamento (condizionamento) interno disciplinavano un meccanismo di premi e sanzioni, talvolta dal contorno moralistico, che sorvegliavano il raggiungimento di determinati obiettivi in materia di saldi da parte delle autonomie.

Impianti che, sovente, hanno dato luogo a distorsioni e condotte pro-cicliche che, da un lato, hanno aumentato il divario tra spazi avanzati e spazi arretrati ( vedasi la faglia Nord-Sud in materia sanitaria, ma più in genus lo iato tra servizi erogati ) e, dall’altro, hanno aggravato le criticità territoriali anziché risolverle ( si pensi al modo con cui si è condotto il percorso di rientro dei disavanzi di regioni e enti locali.

Tali meccanismi, seppur giusti nella teologia movente, nel loro perseguirsi – prettamente ragionieristico- hanno lasciato fratture profonde nel tessuto sociale; come profonde sono le idiosincrasie nell’organizzazione della macchina pubblica ).

La novella costituzionale sopraggiunta con il “diritto europeo della crisi” (ossia quel corpus di Trattati che dal 2011 al 2015 hanno modificato l’ordinamento sovranazionale e poi dispiegato i loro effetti sugli ordinamenti nazionali) ed incarnata dalla legge costituzionale del 20 aprile 2012, n. 1, ha sostanzialmente assorbito quell’impianto sottostante ai precedenti patti interni, trascendendoli e configurando un più incisivo metodo di coordinamento.

È appena il caso di ricordare che, il modus operandi con cui è stata affrontata a livello comunitario quella stagione di crisi ha rinforzato tendenze decisionali interne alle istituzioni europee, consolidando prassi e orientamenti che oggi determinano il momento dell’integrazione europea.

Orientamenti che si sono trasferiti dal piano sovranazionale a quello nazionale, configurando opere di “razionalizzazione” dei procedimenti legislativi che producono risultati profondi e attinenti anche alle relazioni tra soggetti che compongono lo Stato. Tale “comunitarizzazione”[i] dell’assetto istituzionale opera congiuntamente su due binari: uno normativo e uno consuetudinario[ii].

Declinati grazie alla legge “rinforzata” – o “organica” – n. 243/2012, che la applica, i dispositivi della legge costituzionale n. 1 del 2012, conformano l’ordinamento nazionale non solo al corpus dei Trattati, ma sembrano incorporare nelle norme anche quelle tendenze implicite con cui la crisi finanziaria del 2012 è stata affrontata.

Dunque, una codificazione normativa che rinforza taluni atteggiamenti che, in via di prassi, sfociano in un vero empowernment del Governo sulle Autonomie.

Una sovraordinazione codificata che nei fatti assume ancora più rilevanza. Tali connotati creano lo stretto perimetro della governace economico finanziaria.

Il coordinamento impartito dal Semestre europeo (e assorbito dal Semestre nazionale), fattosi assai più strutturato e cadenzato da prassi e liturgie impartite, ha dotato il Governo di una autorità assai ipertrofizzata che trova “sfogo” nella sede del coordinamento della finanza pubblica interna.

Come richiamato, la lettura sistemica della costituzione economica, costituisce un corpus normativo che lascia ben poco spazio alle obiezioni delle Autonomie quando si parla di “ritensione” o sottrazione della spesa pubblica a loro attribuibile.

Il solco tracciato nella fase di interlocuzione, per dire, ascendente (Semestre europeo) in cui i saldi si concertano e il quadro macroeconomico si chiude, non può essere disatteso in sede di attuazione. I “rinvii recettizi in bianco”[iii], stabiliti dalla costituzione economica e applicati dalla legge 243/2012, delineano chiari adempimenti che concretamente incidono sulle prerogative delle autonomie.

Stante ciò, la data posizione governativa – centralizzata dalle spinte sovranazionali e potenziata da un sistema a finanza interna sostanzialmente derivata basata su una redistribuzione top-down delle risorse – ha compresso lo spazio di movimento delle Autonomie, diminuendo le loro facoltà e il loro potere negoziale.

Alla progressiva erosione della capacità di spesa, disposta dai rinvii ai meccanismi europei di contenimento della spesa, coadiuvata dal principio di compartecipazione all’adempimento di tali vincoli di finanza pubblica, le Autonomie hanno constatato una progressiva inflazione della personalità impositiva del Governo nello stabilire obblighi e vincoli di bilancio.                                  

Posizione scaricata nella prassi applicativa che, dato il quadro cristallizzato delineato dalla costituzione economica, fissa i saldi e, ciclicamente, rinnova gli sforzi fiscali che obbligano le autonomie alla compartecipazione, sovente anche avocando le risorse per questioni emergenziali nazionali ed unitarie o rimodulando stanziamenti impegnati ma non ancora perfezionati.

Stante ciò, il coordinamento diventa sensibile al modularsi delle spinte emotive del governo centrale, finendo per diventare una “clava” nelle mani dell’esecutivo che, da una parte, lo esercita (estrapolandone il carattere finalisticamente orientato[iv]) per l’attuazione dei vincoli di finanza pubblica concertati e, dall’altra, lo adopera come copertura per i maggiori oneri derivati dalle politiche “in deficit” (sovente dallo scarso grado qualitativo ma dalla spiccata attrazione elettoralistica).               

Di fatto, il primo e il secondo comma dell’articolo 81 della Costituzione entrano nella sola disponibilità del Governo.

La considerazione del ciclo economico, al fine di modulare ad esso la fiscal policy, consentendo scostamenti dall’Obiettivo di Medio Termine (e ulteriori scostamenti qualora le condizioni lo permettano, commi 2,3 e 5, art. 6, l. n. 243/2012), non può essere applicato alla capacità della spesa delle Autonomie, costrette ad essere vincolate alle disposizioni ex articoli 9, 10 e 12, della medesima legge.                            

In tal senso, magari, lo Stato può consentire labili margini alla co-contribuzione regionale agli adempimenti di bilancio, ma non ulteriori scostamenti in deficit per far fronte ai peggioramenti dei quadri macroeconomici regionali.

Anche il ricorso al debito è allacciato da obblighi e adempimenti assai cogenti nel dispositivo costituzionale (sesto comma, articolo 119, Costituzione e articolo 10 legge 243/2012) e molto più scoraggianti in fase di prassi applicativa.

Sicchè, il risultato è una significativa erosione della capacità programmatoria della spesa delle Autonomie, schiacciata da vincoli di bilancio prestabiliti e da incursioni governative che ne erodono le dotazioni.

A essere consunti, infine, sono i capitoli di spesa per gli investimenti (dato che quel che rimane serve, a mala pena, per far fronte alle spese ordinarie per il funzionamento dell’amministrazione).

Il sottaciuto, a questo punto, è la coerenza ( o l’inopportunità) di un tale impianto alle esigenze connesse al tempo che ci è dato vivere. La pandemia da COVID-19 ha profondamente sconvolto anche gli assunti più consolidati in materia di politica economico-finanziaria.

Molti dogmi che prima orientavano le scelte di politica di bilancio oggi sembrano non essere opportuni ( si veda, a tacer d’altro, la sospensione -condizionata- del Patto di Stabilità e crescita e la ritrovata centralità della funzione statale nelle prime fasi degli investimenti ad alto potenziale di perdite –Green Deal Clause[v]).

La pandemia ha evidenziato, come un fluido reagente iniettato nell’organismo, le grosse lacune del sistema pubblico, enfatizzandone i vizi e le inefficienze.

Sembrerebbe perciò opportuno, considerati i vari solleciti che ci vengono diretti anche dalle sedi comunitarie, cambiare il passo e segnare una maggiore attenzione per le questioni che appesantiscono le nostre già presenti idiosincrasie.

Il dover cambiare la qualità della spesa pubblica è tema dibattuto e intrattenuto da innumerevoli dottrine, su cui non ci fermeremo; ma il gold plating (la caratteristica italiana congegnare strati di regolazione ulteriori rispetto a quanto richiesto da una diversa dottrina) che sostanzia la disciplina del coordinamento, ingessa l’autonoma capacità dell’indirizzo politico in primis, consequenziando un limite qualitativo alla politica pubblica, in secundis.

Quando un apparato centralizzato, che si intuisca abbia l’esclusivo privilegio di esercitare uno sguardo d’insieme sui problemi, non riesce a giustapporre quei due fattori l’unica opzione risiede nel lasciare maggior spazio alla sussidiarietà.

Gli enti locali, le regioni, e altri stackeholders locali (consorziati alla pubblica finalità, dunque all’interesse diffuso) dovrebbero avere la facoltà di raccogliere, stabilire e progettare le priorità di investimento pubblico di cui lo spazio (su cui insistono) abbisogna.

Si badi, investimento, non delapidazione delle risorse (la mole di debito pubblico raggiunto dovrebbe essere la più cogente condizionalità macroeconomica che esista al momento).

Concretamente, alleggerendo la fase del coordinamento (riconfigurandolo come mero strumento di discussione e concertazione tra i due livelli di governo, e non più come strumento finalisticamente orientato a una univoca scelta di valore assiologico) alla sola programmazione delle spese, lasciando all’indirizzo politico regionale la scelta delle autonome poste di spesa (coniugate all’investimento) dovrebbe costituire un modulo strutturale e liminare al più grande progetto del Piano nazionale di ripresa e resilienza, incardinato in questi giorni ai lavori di Governo e Parlamento.

Così, all’obbligo di compartecipazione alle finanze pubbliche, costituzionalmente delineato, si controbilancerebbe una ritrovata prerogativa della spesa pubblica (indirizzo politico altrettanto costituzionalmente delineato) orientata ai soli capitoli di quella massa spendibile caratterizzata da profili di ampio moltiplicatore economico.

Una leva che, di tal guisa, renderebbe nulli tutti i vincoli adempimentali che oggi frenano (anche) l’indebitamento da investimento. Sarebbe un cambio di visione.


[i] N. LUPO, L’europeizzazione delle forme di governo degli Stati membri: la presidenzializzazione derivante da Bruxelles, in N. LUPO, R. IBRIDO (a cura di), Dinamiche della forma di governo tra Unione europea e Stati membri, il Mulino, 2018, pp. 175 e ss.

[ii] dalla centralità del metodo intergovernativo, alla conseguente ipertrofia della figura del Capo dello Stato e dei Primi ministri che lo compongono; dalla imprescindibilità della figura dei Ministri dell’economia e delle finanze alla preferenza di riunirsi in luoghi più informali e sfuggenti alle regole di accountability, sino alla “marginalizzazione della Commissione e del Parlamento europeo – i cui ruoli, il procedimento di reazione alla crisi pandemica attuale, sembrano aver ripreso vigore.

[iii] Così, P. DE IOANNA, Costituzione fiscale e democrazia rappresentativa: un cambio di paradigma, in Cultura giuridica e diritto vivente, (Special issue), 2015 e I.D., Democrazia cognitiva e governance della finanza pubblica, SVIMEZ, 2014.

[iv] M. BENVENUTI, La dimensione finanziaria, in Relazione al convegno del Gruppo di Pisa su “Il regionalismo italiano alla prova delle differenziazioni” tenutosi dal 18-20 settembre 2020, Trento, 18 settembre 2020.

[v] Cfr. L. LIONELLO, Il Green Deal europeo. Inquadramento giuridico e prospettive di attuazione, in Juris. Vita e pensiero, 29 aprile 2020.

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